Ne ignoro le cause più profonde: quell'annetto di psicanalisi che mi sono sorbita non ha portato alla luce nulla a riguardo. E la mia capatosta unita allo scetticismo più totale nei confronti della terapia non ha aiutato. Sinceramente, preferisco prendere in mano le redini della situazione, piuttosto che angustiarmi sul perché mia madre mi abbia allattato al seno oppure no.
So solo che fin da piccola non ho mai tollerato le separazioni: ricordo un giorno, avrò avuto tre anni, che tutta contenta ho deciso che avrei dormito dalla nonna. Era tutto pronto, e io ero già dai nonni dal pomeriggio. Verso sera, credo fosse prima di cena, arrivano i miei per salutarmi (ma se mi avevano vista la mattina? questo è un altro dei misteri irrisolti della mia vita...) e così vengo presa dal panico e decido di tornare a casa.
L'unica vacanza al mare con i nonni è stata un incubo di lacrime, i campi scuola alle medie una disperazione: se di giorno riuscivo a divertirmi, la sera sentivo tutto il peso della lontananza e le lacrime scorrevano a fiumi.
Viceversa, se al mare trovavo una coetanea con cui riuscivo a legare, il giorno della partenza erano scene da melodramma.
In prima superiore, prima di addormentarmi, mi ripetevo come un mantra l'appello di terza media - lo so ancora, dalla A alla Z.
Partire è un po' come morire, diceva Edmond Haraucourt, ma vorrei evitare un funerale ogni volta che mi allontano un po'. Non ho paura del cambiamento, o comunque non è solo questa a farmi stare male. Talvolta ho l'impressione che una partenza sia un punto di non ritorno, che finirò per perdere tutto quello che ho qui, a portata di mano.
Non mi sento a casa da nessuna parte, questo è il punto. Non sento queste quattro mura come qualcosa di mio, ho sempre l'impressione di essere un'ospite, nemmeno così gradita. Sono in perenne ricerca di un porto sicuro e fisso, di un nido che mi accolga, di un frammento di stabilità e di certezza cui aggrapparmi.
100 anni di radio
1 mese fa
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